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"Le parole sono tutto quello che abbiamo, perciò è meglio che siano quelle giuste."

Specchio delle mie brame – Simon Blackburn

Nota: ho sentito il bisogno di iniziare a scrivere questo articolo durante la lettura delle prime pagine di questo libro. Gli spunti che offre sono così tanti che non volevo assolutamente farmeli sfuggire.

Si parte dal mito di Narciso e poi è tutto in discesa no? No, non proprio. Simon Blackburn ha voluto scomodare la mitologia greca, Adamo ed Eva, Schopenhauer, Nietzsche, Rosseau, Kant, Durkheim, Sartre e tantissimi altri pensatori del nostro mondo per parlarci di un tipo particolare di amore: quello per sé stessi. Non è semplice affrontare un argomento del genere proprio oggi che siamo tutti così apparentemente consapevoli, pieni, falsamente felici, fautori di una (ir)realtà da dimostrare. Consapevoli o no, di noi stessi?
La linea di confine è talmente importante da porre ai due estremi le fazioni del mondo: persone insicure, con poca autostima, che cercano costantemente approvazione dagli altri; persone piene di lodi per sé stesse. Ma il punto forse è un altro: siamo davvero coscienti di quello che siamo? Di chi siamo? Essere consapevoli significa essere obiettivi? Significa saper riconoscere i nostri limiti?

“L’eccessiva sicurezza è spesso frutto di un successo precoce, soprattutto se è stato raggiunto ignorando i consigli altrui. Tutte le nostre caratteristiche personali si affinano con l’esperienza, e se la natura poco generosamente ci spinge a fidarci del nostro giudizio più che di quello degli altri, e ci offre occasioni per raggiungere il successo e il plauso in virtù di questo atteggiamento, sta piantando i semi della hybris. Ma la natura può piantare questi semi anche in modo diverso. Noi siamo abilissimi nell’ingannarci riguardo ai nostri meriti e ci basta credere di aver fatto meglio degli altri per essere sicuri che sia così. È come se, quando si parla di fallimenti, fossimo rivestiti di teflon, per cui ci scivolano addosso, mentre i nostri presunti successi sono fermamente piantati nel nostro archivio mentale. Prestiamo anche una diversa attenzione ai successi e ai fallimenti. I primi sono dovuti a noi; i secondi alla sfortuna.”

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Forse siamo talmente presi da ignorare tutto ciò che è nelle nostre mani: siamo delle persone obiettive quando si tratta di giudicare noi stessi? Di comprendere quanto valiamo? Ecco lo slogan principale che l’autore prende come esempio: “perché voi valete”. Quella pubblicità ci sta dicendo davvero che possiamo innalzarci ad un gradino superiore come esseri umani comprando l’oggetto che acclama? O ci sta dicendo che, senza quell’oggetto, siamo nulla? E questo fantasma che ci perseguita, che ci fa credere di essere quello che davvero vogliamo, è capace di creare uno stato di soddisfazione continuo? Molto probabilmente, così come tutti gli oggetti che fanno parte della nostra vita e che abbiamo desiderato fortemente, è in grado di darci una felicità passeggera. Una piccola dose di droga, quello che ci fa stare bene: ottenere.

Ottenere per sé o per gli altri? Siamo davvero felici quando gli altri raggiungono un particolare obiettivo? Magari era qualcosa che desideravamo anche noi e per un momento, o anche tre, abbiamo sperato andasse tutto male ai nostri competitori. Ma si tratta di invidia o di consapevolezza di una nostra mancanza?

“L’idea è che la sincerità non sia un risultato sicuro, raggiungibile a uno stadio dell’essere hegeliano inferiore all’autenticità, che arriva solo quando l’umanità ha raggiunto un livello superiore di consapevolezza. Piuttosto, la vera sincerità è impossibile, ovvero, se preferiamo, il sostituto della sincerità è impossibile da apprezzare se non esiste autenticità nell’io.”

Se state cercando un libro che vi confonda e che, allo stesso tempo, vi dia tutte le risponde, questo è uno di quelli.

 

Ringrazio Carbonio editore per l’infinita gentilezza
e per avermi dato l’opportunità di leggere questo saggio.
La loro collana Zolle per me è ormai una certezza.

Perché le storie ci aiutano a vivere – Michele Cometa

«Dunque quando diciamo “letteratura necessaria” intendiamo molte cose: parliamo di necessità biologica, insistiamo sulla funzione che la letteratura ha per la vita, sulla sua indispensabilità nel quadro dell’evoluzione della specie e in particolare nell’evoluzione delle capacità cognitive dell’Homo sapiens e forse anche di tutti gli altri ominidi che lo hanno preceduto.»

“La letteratura necessaria”, sottotitolo di questo saggio, esplica totalmente il suo fine ultimo: dimostrare come la letteratura aiuti l’uomo a vivere. Per avvalorare questa tesi, Michele Cometa parte da lontano, dai primi utensili che l’uomo ha creato come estensione della propria mente. Strumenti utili e necessari alla sopravvivenza e allo svolgimento delle prime attività per il sostentamento, ma con un valore simbolico molto più grande. L’archeologia cognitiva si occupa di ciò, di ricercare il pensiero e il simbolismo che c’è negli oggetti; di comprendere i meccanismi e le architetture della mente. Addentrandosi in questo scenario e citando alcuni grandi dell’archeologia come per esempio Colin Renfrew, questo saggio ci pone di fronte all’esistenza di un linguaggio, ancora prima della nascita del linguaggio stesso. Linguaggio dei gesti, linguaggio degli oggetti. La necessità di ottenerlo e, per noi, di comprenderlo.

«I rituali, la pittura, la scrittura e la narrazione, sarebbero in quest’ottica un magazzino, un’estensione, un “mezzo” che ci permette di trascendere i limiti impostici dalla struttura della nostra mente e dalla nostra storia evolutiva, un modo per evitare quel “carico computazionale” che neppure il cervello esteso dell’Homo sapiens poteva sopportare.»

L’uomo ha naturalmente questa tendenza ad estendere il proprio pensiero, ad alleggerire il carico della mente, a costruire al di fuori di sé. Lo facciamo fin da piccoli nel momento in cui giochiamo e per farlo creiamo delle vicende, costruiamo scenari, immaginiamo persone. Plasmiamo storie che ci riguardano, che ci fanno percepire come esseri attivi, in movimento, e quelle stesse storie hanno bisogno di evolversi, di modificarsi, di trovare una svolta per percepirci sempre in maniera diversa. Per sentire che procediamo, che non siamo esseri statici, che abbiamo imparato dall’esperienza. La narrazione diviene così uno strumento terapeutico.

«L’incertezza, invece, caratterizza l’Homo sapiens come essere storico. L’uomo è l’unico animale che possiede una storia e ne è consapevole, e dunque è costantemente sospeso tra passato e futuro, entrambi forieri di incertezza e instabilità esistenziali. Tutte queste esperienze producono ansia e l’ansia va immediatamente ridimensionata, se non vogliamo che da fenomeno eminentemente adattivo si trasformi in handicap, o divenga addirittura fatale.»

Tra i quattro capitoli di questo saggio (1. Elementi di Biopoetica; 2. Archeologia del Sé; 3. Poetiche della mente; 4. Antropologia dell’ansia), l’ultimo è forse il mio preferito. L’abilità di Michele Cometa è stata quella di partire dal principio ed arrivare ai nostri giorni, dove l’ansia regna sovrana e il cui vocabolo è presente su buona parte dei libri in commercio.
L’uomo moderno si sente distaccato, percepisce problemi relativi al sé che lo immobilizzano, lo estraniano, lo separano dalla logica. Nel tempo, l’Homo sapiens è riuscito a fuggire da questa sua propensione all’incertezza: è la mente stessa dell’uomo a renderlo un essere manchevole. Le arti e la cultura vengono percepiti come degli “strani utensili” che hanno aiutato l’uomo a colmare le sue debolezze nel corso del tempo, implementando però la sua necessità di riempirsi, andando a cercare nuove forme di compensazione, spingendosi fino all’impossibile. In questo scenario, la narrazione ha la capacità di supplire alle inquietudini biologiche dell’uomo.

«La narrazione è, come abbiamo ricordato, lo strumento più efficace di esonero dalla realtà e dal peso soverchiante dell’assoluto.»

L’uomo è forse l’unico animale capace di riconoscere l’infinito, la distesa sconosciuta in grado di divorarlo, sia che ci si riferisca allo spazio, sia che ci si riferisca al tempo, soprattutto al grande ignoto che chiamiamo futuro – aggiungerei: specialmente per i millennials. La letteratura, come dice Boyd, è in grado di “predire ciò che sta per accadere”, di proporci scenari possibili, di illuderci di sapere come affrontarli se dovessero accadere a noi perché li abbiamo già letti, ci siamo già immedesimati grazie al mind reading: uno dei tanti concetti base di questo saggio.

«è infatti la creatività quella che ci permette scorciatoie meno faticose, cioè di illuminare come un lampo territori che la ragione scientifica conquisterebbe a fatica.»

Non posso addentrarmi ulteriormente in questo saggio colmo di concetti, di referenze e con una bibliografia di settanta pagine che già solo menzionandola può farvi comprendere la mole del lavoro.
Inconsapevolmente, è un saggio perfetto per un’archeologa lettrice accanita quale sono. Non vi nascondo che è stato uno dei libri più belli letti questa estate, così come non vi nascondo la necessità di centellinare le pagine: si tratta pur sempre di un libro che presenta diversi livelli di lettura e una certa complessità, ma totalmente affrontabile per un amante del linguaggio, della narrazione, dell’arte in toto.

 

Ringrazio davvero Raffaello Cortina Editore per avermi dato la possibilità di scegliere questo libro dal loro catalogo.
Gioia e dolore perché, sfogliandolo, mi sono accorta della sua vastità e della necessità di altri titoli, visto che parliamo di “letteratura necessaria”.

Il lenzuolo che occulta – Fumo negli occhi di Caitlin Doughty

Duecentoquarantadue pagine lette e alla fine non sono riuscita a definire questo libro. Memoire o saggio antropologico? La linea di demarcazione è debolissima ed è ciò che lo rende così attraente.
Caitlin Doughty ha deciso di raccontare la sua esperienza personale con la morte, in particolare quella svolta in un’impresa di pompe funebri. All’inizio del volume viene specificato che tutto quello che leggeremo è realmente accaduto e non si può che rimanere perplessi leggendo le pagine successive in cui vengono descritti con minuzia i cadaveri che Caitlin ha rasato, truccato, cremato. È qualcosa che collide con la nostra idea di morte, quella che ci è sempre stata data e che continua a prevalere. Quella che vede costretta a truccare i defunti, a imbalsamarli, a fargli la piega: le agenzie di pompe funebri ci convincono dell’essenzialità di questi gesti.
Sappiamo benissimo cosa accade al corpo umano dopo la morte, conosciamo i vermi che mangeranno la nostra carne una volta nella tomba, eppure ignoriamo tutto questo ed è ciò che alimenta ancora di più la paura.

“…noi viviamo già in questo tipo di cultura. Una cultura di negazione della morte.”

La morte che ci viene presentata in tv o sui giornali non è quella reale. Ci viene posto al di sopra un velo perché la società occidentale non è capace di guardarla in faccia.
Lasciamo sempre che sia qualcun altro a occuparsi dei nostri defunti, a pulirli, a vestirli, e infine li releghiamo sotto terra per non guardarli. Per sigillarli il più lontano possibile da noi per paura che tornino a tormentarci. Ma la realtà dei fatti non può essere raccontata e fin da piccoli veniamo riempiti di favole: i bambini che provengono dalle cicogne, i defunti che vanno in cielo, “in un posto migliore”. Ci raccontiamo una storia che ci fa sentire meglio per l’incapacità di accettare la realtà, o semplicemente guardarla.

Ogni capitolo è il racconto di una vita che Caitlin si ritrova a guardare in quegli occhi che non sanno rimanere chiusi, in quella mandibola che non riesce a stare dritta, in quella pelle dal colore fosforescente indefinibile. Un intreccio di racconti tra le vite delle vittime, le esperienze personali dell’autrice e frammenti di studi antropologici e filosofici su ciò che ha sempre accomunato tutti, nel tempo e nello spazio. Riflessioni su quanto la nostra cultura occidentale sia profondamente diversa in questo e quanto possiamo imparare da chi la morte, da secoli, è in grado di guardala in faccia.
Ogni caso fa riferimento a un topic, tra cui per esempio la visione del suicidio come unica libertà dell’uomo, la percezione della vita dei senzatetto, la pena degli anziani incapaci ormai di esprimere le proprie volontà. Questo forse è quello che mi ha colpito di più; rappresenta appieno le contraddizioni e l’ipocrisia della società moderna:

“Non abbiamo le risorse (né le avremo un domani) per prenderci cura in maniera adeguata degli anziani, sempre più numerosi; eppure continuiamo imperterriti a ricorrere all’intervento medico per tenerli in vita. Perché lasciarli morire sarebbe un segno evidente del fallimento dell’attuale sistema sanitario, che in teoria dovrebbe essere infallibile.”

Siamo ormai abituati a nascondere e modificare. Cerchiamo di ingannare la morte ogni giorno con i nostri cosmetici e con quelle creme che ci aiutano a nascondere i segni del tempo che ci scivola dalle mani. Ma è proprio la mancanza di tempo a rendere la vita così preziosa.

“La morte sembra distruggere il senso delle nostre vite, invece è, a dire il vero, la fonte primaria della nostra creatività. La morte è il motore che continua a farci andare avanti, dandoci la motivazione per realizzarci, per imparare, per amare e per creare. […] Tutte le grandi conquiste dell’umanità derivavano dai limiti di tempo imposti dalla morte.”

Qui mi son venuti in mente tutti quei saggi che ho letto ultimamente e che mi piacciono tanto. Quelli in cui si parla di tecnologia e immortalità, o meglio, aspirazione all’immortalità. Un concetto che mi terrorizza e che per quanto mi riguarda, non dovremmo nemmeno contemplare.

L’esperienza di Caitlin Doughty è stata guidata da una vocazione e la scelta di scrivere questo libro è stata influenzata dalla volontà di lasciarci ciò che ha imparato: la capacità di comprendere la morte, di accettarla e di vederla come motore che muove le cose e non come un punto di arresto fatto solo di disperazione.

Definire memoire questo libro è riduttivo. “Fumo negli occhi” è un’esperienza universale che consiglio a chiunque.

 

 

Quanto di noi lasciamo fuori dallo schermo? – La società della perfomance, Maura Gancitano e Andrea Colamedici

Gli interrogativi esistenziali, negli ultimi tempi, si sono consumati all’interno della mia mente e forse questo sarà più un articolo personale che un consiglio di lettura. O forse entrambi, visto che i miei pensieri vanno di pari passo.

Questi quesiti hanno scaturito in me una voglia di letture di un certo tipo: saggi sull’umanità, sulla società e su come viene percepita oggi l’interiorità. Questo ha fatto sì che, per il BBB del mese di Giugno, scegliessi La società della performance tra il catalogo di Edizioni Tlon.

Questo piccolo volume illuminante è in realtà parte di un progetto più ampio degli editori, preceduto da Tu non sei Dio e Lezioni di Meraviglia. Mettiamoli insieme alla cicciona bibliografia alla fine del libro e avremo letture per i prossimi anni.
La società della performance si pone come conclusione di questo disegno e propone un percorso per uscire dagli schemi di questa società e aiutare chi ci circonda a fare altrettanto. Non starò qui a parlarvi di come riuscirvi perché, ovviamente, dovrete leggere il libro per scoprirlo. La mia intenzione è quella di mettere in tavola alcune riflessioni con il semplice scopo di suscitare la vostra curiosità. La prima è: quanto di noi lasciamo fuori dallo schermo?

“Viene comunicato ciò che è positivo, ciò che può accrescere la propria immagine, aumentare il ranking. Per questo ciò che è negativo viene eliminato e nascosto e la realtà va aggiustata per entrare meglio in uno scatto, filtrata perché rimanga soltanto ciò che è performativo.
[…] Ciò che non appare è dunque frutto di una autocensura: agli occhi degli altri non esiste, ma per chi si è autocensurato rappresenta una parte di sé rimossa, non accettata e dunque non compresa.”

Siamo i protagonisti di questi eventi e ci lasciamo trascinare da ciò che vediamo perché non farne parte sarebbe un reato. Sarebbe come non esistere.
Evitiamo di condividere pensieri fuori dalla massa, citazioni, cose che non verrebbero comprese, o peggio, mal interpretate. Perché nella società della performance non puoi permetterti di sbagliare: la gogna mediatica è immediata e potresti essere ricordato per quell’unica parola sbagliata che non hai misurato abbastanza sulla bilancia della discriminazione. Allo stesso tempo hai bisogno di parlare, di far sì che l’icona della tua immagine del profilo sia sempre presente, altrimenti l’engagement si abbassa e per farlo risalire ci vogliono sforzi disumani (infatti esistono i bot). Questa continua esigenza di esprimere i propri pensieri ha fatto sì che nella società della performance non ci sia distinzione tra chi ha le competenze per esporre e chi invece ha solo letto un articolo online o, come quasi sempre accade, solo il titolo. Siamo richiamati costantemente a mostrarci e più spuntiamo sullo schermo, più sentiamo il bisogno di quei brevi momenti di celebrità che, ormai, sono diventati una droga. Tutti hanno un seguito. 

“I nostri comportamenti privati, la nostra sessualità, le scelte alimentari, qualunque aspetto della nostra vita potrebbe causarci la morte sociale. Basterebbe poco. Sentendoci costantemente sorvegliati, abbiamo sempre più paura di essere noi stessi, cioè persone complesse e mutevoli, in grado di sbagliare e di cambiare idea. In altre parole: imprevedibili.”

Il conformismo è un effetto collaterale inevitabile, al primo posto tra la lista del bugiardino dei social network. L’imprescindibile conseguenza del conformismo è la paura di non essere conformati. Abbiamo imparato a slegarci dalle catene della non accettazione per determinate categorie: vedi l’omosessualità, o il body shaming, ma non lo abbiamo ancora imparato per le singolarità. Quindi, ingarbugliandoci il cervello, anche lo slegarci dalle catene della non accettazione è ormai diventato conformazione? Credo proprio di sì.

Il bello di seguire queste linee di pensiero è che si finisce per svolgere della analisi filosofiche senza rendercene conto. Non a caso i due autori del libro citano Platone e il mito della caverna, e non credo di dovervi spiegare il perché. La filosofia antica è alla base del nostro comportamento. Chissà se, davvero, avevano previsto tutto o l’uomo, incapace di cambiare, continua a ricadere negli stessi schemi anche dopo più di duemila anni di esperienza.

“E, a forza di guardare dentro lo schermo, lo schermo finisce per guardare dentro di te.”

La società attuale ha perso religione, o forse l’ha enfatizzata troppo. Indipendentemente dalle divinità che tendiamo ad adorare, siamo tutti fedeli adepti del Dataismo: il culto del dato. Produciamo dati in continuazione, inconsapevolmente, anche solo cliccando sul pollice blu di Facebook. Da lì riparte tutto: un massa enorme di dati per rielaborare le nostre preferenze, migliorare la conoscenza di noi, pronta a proporci un annuncio pubblicitario di qualcosa che, forse, non sapevamo neanche di volere ma che, wow! Come posso farne a meno ora che so della sua esistenza? Ma soprattutto: che posso ottenere così facilmente?

Viviamo incoscienti solo nel presente, con la continua tendenza a dover dimostrare di esistere. Se non posti qualcosa non stai facendo niente della tua vita. Sei in viaggio, potresti goderti il panorama e l’eventuale compagnia, ma c’è quel desiderio impellente di estrarre il cellulare dalla tasca e di dover dimostrare a tutto il mondo di star facendo davvero quell’esperienza. Se loro non lo sanno è come se non l’avessi fatto davvero. Le nostre esperienze assumono valore e realtà solo se clicchiamo su Pubblica. Ma poi: è davvero quella la realtà o qualcosa che abbiamo rivestito come tale? Forse, qualcosa che abbiamo scambiato. Sbagliamo ad attribuire importanze. 
E per quanto tu abbia una tua personalità, per quanto tu abbia dei principi ben saldi, sei costretto a reinventarti ogni giorno. E a furia di reinventarti, a furia di volerti vedere sullo schermo, ti ritrovi a produrre contenuti privi di valore, a creare una comunicazione vuota.

Siamo al centro di tutto questo, e vogliamo esserlo, perché alla base c’è un profondo egoismo che scinde dalla comunità e che allo stesso tempo ci chiama a farne parte. La soluzione ci sarebbe, non a caso La società della performance è diviso in dieci capitoli e ci pone di fronte un percorso di conoscenza di sé e di meccanismi di cui talvolta non ci rendiamo neanche conto di far parte. In maniera chiara e stimolante, i due autori Gancitano e Colamedici, ci inseriscono in un complesso di pensieri che vanno da Platone a Black Mirror, citando i più recenti lavori di Baricco (The Game) e Harari (su cui trovate anche un mio articolo accurato di qualche mese fa). La società della performance è il libro giusto al momento giusto, e non parlo solo di me. Per dimostrarvelo, vi lascio con un quesito:

“Quanto spazio c’è nella nostra vita quotidiana per l’intimità, il silenzio, la contemplazione?”

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Quarto anno al Salone del Libro di Torino.

Le tradizioni vanno rispettate e da quando io e Carla abbiamo iniziato, non abbiamo più smesso. La trentaduesima edizione di questo Salone vedeva come tema principale Il gioco del mondo: un modo per dire che “la cultura salta i confini” e per omaggiare uno dei romanzi di Cortàzar. Non a caso, la lingua ospite di questa edizione è stata lo spagnolo.

Di questo Salone se ne è parlato tantissimo, non sto nemmeno qui a spiegarvi il perché: ho scelto di non dare visibilità e di non menzionare fazioni o personaggi “politici” che, tramite le loro idiozie, ricercano solo pubblicità e popolarità. Non sarò io a dare loro questa soddisfazione.
Quest’anno si sono sfiorati i 150000 visitatori anche se, stranamente, l’affluenza della domenica mi è sembrata davvero davvero scarsa. Ma passiamo alle cose più importanti.

L’ospite di quest’anno era la regione Marche. Questo ha comportato la presenza di tanti incontri su Giacomo Leopardi all’interno del programma. Purtroppo, non sono riuscita a parteciparvi nonostante lui sia uno dei miei amori letterari, forse il primo.
Ogni anno, sempre più, partecipo a sempre meno incontri: scelgo di passeggiare e di chiacchierare con gli editori, di farmi illuminare e plasmare in questo piccolo mondo che mi sorprende costantemente – in senso positivo e negativo. A proposito di negativo, metterei subito in tavola ciò che non mi è piaciuto di questa edizione, per dolcificarvi alla fine con le mie parole smielate su ciò che, come sempre, mi fa essere lì ogni anno.

  1. Il padiglione Oval: quest’anno si è scelto di chiudere il piccolo padiglione che ospitava l’area Bookstock per aprire un nuovo padiglione: l’Oval. Innanzitutto c’è da dire che l’area Bookstock era uno spazio dedicato ai più piccoli, con laboratori e diversi intrattenimenti. Quest’anno, l’area Bookstock è stata inglobata nel secondo padiglione; questo ha fatto sì che i bambini fossero liberi di scorrazzare in un’area non delimitata, disturbando la quiete circostante degli adulti.
    Si è scelto quindi di aprire questo nuovo padiglione più grande, grande quanto gli altri, per ospitare tutti i grandi editori (es. Feltrinelli, Mondadori, Sellerio) insieme ad altri più piccoli. Cosa ha comportato ciò? Ve lo dico io: 10 minuti di cammino. Forse, gli organizzatori, non hanno calcolato il fatto che la gente cammina già tantissimo in queste occasioni, se poi deve farsi anche dieci minuti di strada fuori dalla struttura per entrare in un’altra, naturalmente, si infastidisce. Io, abituata a camminare tantissimo, organizzavo una visita al padiglione Oval solo una volta al giorno, di più era impensabile. Sono favorevole all’apertura di nuovi spazi ma prima, per favore, calcolate le distanze e la stanchezza dei visitatori.
  2. Il progetto “Il prossimo passo”. Attenti che questo fa davvero ridere. Questo progetto riguarda la sostenibilità e prevede delle aree di raccolta differenziata all’interno dei padiglioni, ma non credo che il Salone del libro di Torino possa permettersi di parlarmi di sostenibilità ambientale quando, al servizio di sicurezza all’ingresso, ti fanno lasciare anche le mutande. Per carità, sono consapevole delle esigenze di sicurezza, visti poi gli ospiti di questa edizione (vedi Saviano) ma far lasciare delle piccole borracce di plastica da neanche mezzo litro mi sembra esagerato. Basterebbe verificare il contenuto, no? La cosa bella è che ti dicono che puoi ritirarle all’uscita. Ma chi si riprenderebbe una borraccia lasciata per terra, incustodita per tutta la giornata? Io onestamente no. Per non parlare di deodoranti roll-on e spray, profumi, prodotti cosmetici. Come può, il Salone del libro, parlarmi di sostenibilità ambientale se mi costringe a comprare tre bottigliette di plastica per sopravvivere una giornata all’interno del Lingotto? Cercavo una risposta ma più e più volte sono stata bellamente ignorata (vista la questione scottante) da chi si occupa del profilo Twitter del Salone.
    Chi mi segue su Instagram sa che questa questione mi sta molto a cuore, tanto da bere l’acqua del rubinetto del Lingotto piuttosto che comprare le bottiglie di plastica. Mi sento molto FU** THE SYSTEM.

Ma basta, giungiamo alle cose positive. Ho partecipato a quattro incontri durante la giornata di domenica; gli altri due giorni ho consumato i miei piedi che ora mi chiedono pietà. Il primo incontro è stato domenica mattina, organizzato dal Museo Egizio di Torino: era la presentazione della nuova mostra Archeologia invisibile, visitabile fino al 20 Gennaio 2020. Non avete scuse, dovete assolutamente andarci. Lo so che parlo da archeologa, ancora di più da egittologa, ma è qualcosa di davvero innovativo, qualcosa che non vi aspettereste mai dall’archeologia. L’obiettivo è mostrare come l’archeologia non sia una disciplina ferma, rimasta ai metodi della fine dell’800, ma in continuo movimento, in grado di collaborare con la scienza e con i metodi di indagine moderni per preservare il nostro patrimonio culturale.
Il secondo incontro è stato quello dedicato ad Alberto Moravia. Abbiamo ricordato la sua figura e la sua particolare personalità tramite degli aneddoti che solo sua moglie e uno dei suoi amici potevano raccontarci. Inutile dire che è stato davvero emozionante, anche per me che non ho mai letto niente di suo.
Nel pomeriggio ho partecipato ad un incontro su L’amica geniale con il regista della nuova e incredibile serie tv, l’editore e/o e Alba Rohrwacher che ci ha letto le lettere che Elena Ferrante e il regista si sono scambiati prima dell’uscita. Questo alone di oscurità intorno alla figura della scrittrice certamente rende il tutto ancora più interessante; la sua figura emerge però dalle sue lettere ed io sono sempre più convinta che sia una donna, esattamente come la Lenù ormai matura che ci racconta la sua storia.
Le parole dell’ultimo incontro riecheggiano ancora nel mio cuore – quanto sono smielata. Uno di quegli incontri che vorresti durassero ore, le cui parole non ti stancano mai: l’incontro con Michele Mari e Walter Siti. Di Siti non ho mai letto nulla ma chi mi conosce sa l’amore che provo per Michele Mari, per le sue poesie e per la sua prosa chimerica. È stato un incontro illuminante sul senso della letteratura, sui suoi obiettivi, sulla sua appartenenza al mondo e sul suo essere essa stessa il mondo. Seduta per terra come una bimba in adorazione, avevo gli occhi lucidi. Non saprei nemmeno spiegare cosa mi lasciano questi incontri a chi non c’è mai stato: è qualcosa di chiarificante, diverse epifanie messe insieme. Non credo che vorrei neanche spiegarlo. Ripongo il tutto nel mio cassettino delle esperienze, come se fosse il mio patrimonio.

Speravo di essere breve e invece non ce l’ho fatta. In ogni caso, nonostante alcuni aspetti negativi, ci sarà pur un motivo per cui dilapido tutti i miei risparmi, ogni anno, per questa fiera no? E sono facilmente intuibili.
Per i lettori e i non lettori che non ci sono mai stati: siateci.

 

 

Intervista a Carbonio Editore

Cari lettori,
Il BookBloggerBlabbering ha scelto come casa editrice del mese di Aprile Carbonio Editore. Incuriosite dalle loro produzioni, abbiamo fatto un’intervista a Fabio Laneri, editore.

1) Prima domanda obbligatoria: come è nata Carbonio editore?

Dalla passione di un architetto imprenditore, Fabio Laneri, da sempre innamorato dei libri e dell’editoria, sulla scia dell’esperienza editoriale della Presidente Fortunata de Martinis, già editrice nei primi anni ’90.

2) “Il principio della vita che permane dopo la morte
come l
’arte, come la parola, come il pensiero
questo, dunque, è ciò di cui ci occupiamo.”

Parole bellissime. Cosa vi ha avvicinati alla scelta di questo nome?

La scelta è caduta sul carbonio che è l’elemento che compone la catena della vita, trovandosi in tutte le forme di vita organica. Inoltre, nella sua variante di ‘carbonio 14’ permane centinaia di anni dopo la morte, al punto da consentire agli archeologi la corretta datazione del reperto.

3) Scelta molto interessante quella di una collana dedicata alla filosofia. C’è qualcuno in casa editrice particolarmente affezionato che ha spinto per questa scelta? O è una passione comune?

L’architetto imprenditore ha da sempre sviluppato una passione per la filosofia che considera base necessaria per ogni riflessione sulla vita (e sulla morte).

4) Dall’altra parte c’è invece “Cielo stellato”. In base a quale criterio vengono scelti i libri di questa collana?

“Cielo stellato” è la collana della parola, che illumina nuovi percorsi, tra memoria e racconto, reportage e finzione, mistero e poesia. Voci fuori dal coro tra fiction e non fiction, testi ispirati selezionati secondo il criterio della ricerca della qualità autoriale, dell’originalità e della poeticità del linguaggio.

5) Come siete arrivati a dedicare attenzione anche al misticismo e ad autori di culto? Come Colin Wilson per esempio.

Pubblichiamo opere selezionate da tradizioni culturali diverse per il rilievo letterario e la singolarità del profilo autoriale. Dal memoir al mystery, dalla cronaca alla science fiction, testi dal respiro universale che sfidano il tempo.

La scelta di autori di culto come Wilson è dunque stata guidata dall’attenzione nei confronti di due suoi romanzi – La gabbia di vetro e Un dubbio necessario – dalla forza dirompente, scritti da un genio della letteratura inglese.

6) Ci sono novità in arrivo? Cosa dobbiamo aspettarci dalla nuova collana “Origine”?

Sì, numerose, a partire da un giovane e talentuoso scrittore sloveno, passando per un nuovo thriller di Jill Dawson, per arrivare alla trilogia di Colin Wilson, ‘Riti notturni’, in uscita a fine 2019.

Origine raccoglie classici ancora mai pubblicati in Italia, o da tempo dimenticati: gemme dal pregio indiscusso che costellano il nostro passato e conservano ancora oggi straordinaria forza e attualità.

 

Ringrazio ancora Carbonio editore per aver deciso di condividere questa esperienza con noi e Fabio Laneri per la pazienza. A breve, sulla nostra pagina Facebook, troverete tanti consigli letterari marcati Carbonio Editore!

Effetti collaterali dei sogni – Guglielmo Brayda

Il BBB è tornato per il nuovo anno e siamo felicissime di ospitare Voland come casa editrice del mese di Febbraio. Il loro catalogo comprende diverse collane e trovate una panoramica proprio qui. Per quanto mi riguarda, ero indecisissima sulla scelta non avendo mai letto nulla di questa casa editrice. Fortunatamente mi è venuta in soccorso Diletta che, come sempre, sa esattamente ciò di cui ho bisogno.

Guglielmo Brayda è un neurologo e non a caso, in questo libro, ci muoviamo all’interno della mente umana cercando di comprendere meccanismi comuni a ognuno di noi.
L’autore analizza i contatti umani e le relazioni, scende nel profondo della dipendenza, dell’abbandono, del bisogno.

Il protagonista è un neuroscienziato che in una Roma afosa di Giugno incontra Anouche, una donna bellissima che “ha scambiato le parole per il mondo”.

“L’astrazione può portarti a una vita interiore più intensa e appassionata di chi dedica la propria esistenza all’azione e alla vita esterna – mi dice.”

Anouche vive la sua vita dentro se stessa e spesso non riesce a tirare fuori tutto ciò che è racchiuso all’interno del suo io. Il nostro protagonista è consapevole di avere di fronte una persona difficile da decodificare, con nevrosi, paure e ferite che sono evidenti gridi di aiuto. Ma “l’amore non si sceglie.” Anouche è colei che ha sempre conosciuto ma che non aveva ancora incontrato.

“Trovare l’oggetto del proprio bisogno interiore è semplicemente ritrovarlo.”

E così si sviluppa la sua dipendenza, il bisogno di quel corpo e della sua compagnia. Esigenza con cui si ritroverà a fare i conti perché Anouche rimane incinta e decide da sola di non voler tenere il bambino. Questo causa una rottura, in Anouche e tra di loro. Ma lei rimarrà per molto tempo nei suoi pensieri e al primo posto tra i suoi desideri.

Il protagonista si ritrova ad affrontare la solitudine causata dalla perdita di qualcosa che pensava avesse finalmente colmato l’abisso. Da qui iniziano a salire a galla immagini nascoste nella sua mente che si manifestano sotto forma di sogni.
Visioni oniriche tormentose sempre più frequenti e intense che lo porteranno a vivere in uno stato intermedio, tra il reale e l’astratto.

Un romanzo bellissimo che attraverso l’occhio scientifico analizza l’amore e la passione, tramite la spiegazione delle emozioni, degli odori, di ciò che ci attrae in un’altra persona. Ma non c’è solo Anouche, ci sono anche Sara e Nina. Tutte e tre diverse, in grado di estrapolare sensazioni e comportamenti discordanti, confermando che “L’adesione all’altro modifica il nostro Io.”

Talmente introspettivo e intimo che ho paura di renderlo banale con le mie parole.
L’unica pecca, se proprio vogliamo trovarla, è la mancata descrizione dei suoi sogni. Ma credo sia tutto voluto, basato sui diversi livelli di lettura del libro.
Armatevi di matita perché lo sottolineerete tutto.

“La vita è un viaggio involontario nell’ignoto. Quando si analizzano le conseguenze del vissuto scopriamo che siamo stati premiati ogni volta che abbiamo assecondato le nostre emozioni.”

BBB is coming to town – Il nostro bisogno di consolazione per Carla di Tararabundidee

Il mio primo anno con il BookBloggersBlabbering è giunto al termine e sono davvero contenta di questa esperienza. Vi abbiamo consigliato tantissimi libri e non vedo l’ora di scoprire le sorprese che ci riserverà il prossimo anno. Per lasciarvi però, abbiamo organizzato un Secret Santa particolare, sorteggiando e consigliando un libro specifico ad ognuna del collettivo. A me è capitata Carla

Io e Carla ormai ci conosciamo da cinque anni, e la nostra passione per la lettura onnivora si è più o meno sviluppata contemporaneamente, così come i nostri blog. Carla però ha questa costanza e impegno che io ammiro tantissimo, non so davvero come faccia a fare tutto. Per lei ho scelto un libro letto proprio qualche giorno fa. Sono sicurissima che le piacerà.

L’autore svedese che sto per consigliarle (e consigliarvi) è degli anni ’50, anni particolari e ricchi di domande. Ed è proprio una domanda ad essere al centro di questo suo piccolo “testamento spirituale”. Sono cinquanta pagine a dir poco perfette in cui Dagerman cerca una risposta al suo bisogno di consolazione.

“Mi manca la fede e non potrò mai, quindi, essere un uomo felice, perché un uomo felice non può avere il timore che la propria vita sia solo un vagare insensato verso una morte certa.”

L’uomo è un granello nei confronti dell’eternità, del mare, del vento, delle forze della natura. Dagerman inoltre, ha perso fiducia in sé stesso come autore. Si sente passato, incapace di produrre ancora, quasi forzato nell’estrapolare parole.
La morte potrebbe essere l’unica consolazione; l’unica libertà che l’uomo può prendere nella sua vita nei confronti di un dio che lo ha posto nella completa solitudine e sconforto. Il suicidio è la sua via di uscita.

“Dal momento che mi trovo sulla riva del mare, dal mare posso imparare. Nessuno ha il diritto di pretendere dal mare che sorregga tutte le imbarcazioni o di esigere dal vento che riempia costantemente tutte le vele. Così nessuno ha il diritto di pretendere da me che la mia vita divenga una prigionia al servizio di certe funzioni. Non il dovere prima di tutto, ma prima di tutto la vita! Come ogni essere umano, devo avere diritto a dei momenti in cui posso farmi da parte e sentire di non essere solo un elemento di una massa chiamata popolazione terrestre, ma di essere un’unità che agisce autonomamente.”

Un libricino da leggere e rileggere all’occorrenza. Perché per quanto possa essere cupa la nostra visuale in determinati momenti, dentro ognuno di noi c’è qualcosa di potente, “e la mia potenza è temibile finché ho il potere delle parole da apporre a quello del mondo”.

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Il cadetto – Cosimo Argentina

“Il mare era sempre lì dove lo lasciavo e ogni volta mi dava emozioni.”

Ammetto di aver scelto questo libro per l’ambientazione: Taranto, la mia città natale. Città che odi e che ami, il rapporto con lei è davvero complicato. Speravo di leggere un ritratto autentico di questa città, e così è stato. Ne sono davvero contenta.

Il cadetto è un romanzo ambientato negli anni ’80, diviso in quattro parti a seconda dei periodi della vita del protagonista, Leonida. Nato a Taranto, figlio di una madre credente e di un padre che avrebbe tanto voluto non avere questo ruolo. Sin dalle prime pagine, dalla descrizione dei genitori e degli amici del protagonista, Argentina si rivela un ottimo ritrattista.

“Non sopportando il mondo circostante se n’era costruito uno tutto suo.”

È la storia di un ragazzo che sta per terminare il liceo e non sa come affrontare la sua vita, o meglio, crede di saperlo. Crede che mettere in un angolino quello spiraglio di passione sia la soluzione migliore per tutti. E così parte per l’accademia di Modena, pensando che quella vita sia l’unica possibile per lui.

Leo si ritrova ad essere il più adatto, ma la vita da cadetto non gli calza a pennello, c’è qualcosa fuori posto. È come indossare il vestito della tua taglia, con un leggero difetto ai lati e che non ti fa dormire.

In circa trecento pagine seguiamo il percorso di un ragazzo che non ha un’idea ben definita del suo futuro, sa solo come deve sentirsi alla fine di tutto. Non conosce la sensazione perché non l’ha mai provata, ma è quello il punto di arrivo.

Da Taranto a Modena, da Bari a Milano.
Leo è dinamico, cambia senza troppi problemi, si adatta alla vita, ma senza rinunciare alla volontà di raggiungere quella condizione.

“Era una costante della mia vita partire a razzo e poi perdere i pezzi per strada.”

Lo vediamo mentre svolge la vita di cui si accontenta, da cadetto a studente di giurisprudenza mentre di nascosto, sul suo taccuino, scarabocchia frasi poetiche e liberatorie. Probabilmente crede di non meritarlo, di non essere all’altezza di ciò che, in fondo, lui desidera. Il teatro.

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Il mese di Dicembre dell’IndieBBBCaffé è dedicato a Terrarossa Edizioni, che ringrazio davvero tanto per la copia di questo libro. Rimanete sintonizzati perché il prossimo anno ci saranno tante nuove case editrici indipendenti da scoprire!

Atlante delle ceneri – Blake Butler

Atlante delle ceneri è una raccolta di racconti pubblicata da Pidgin edizioni questo Novembre. Ne son stata attratta fin da subito e ringrazio ancora la casa editrice per la copia che mi è stata inviata.

È un atlante perché ci pone di fronte a una serie di scenari apocalittici di cui noi ammiriamo soltanto le ceneri. Ci troviamo di fronte a devastazioni già avvenute, persone perdute, altre svanite nel fuoco. Ripercorriamo gli errori, i gesti mancati e quelli decisamente sbagliati. È un’analisi della disintegrazione all’indietro, per cercare di comprendere dove c’è stata la svista, per capire se c’era qualcosa da salvare.

Atlante della distruzione e della disperazione incapace di parlare.

Lo definirei anche: atlante delle perdite. Il protagonista di ogni racconto si ritrova a perdere soltanto, a dover fare i conti con ciò che ha smarrito e con la solitudine. Chiedendosi perché non è semplicemente svanito come tutti gli altri; chiedendosi perché è proprio lui a dover affrontare le mancanze.

“Odiando la mia pelle perché non diventava pallida. I miei denti perché non marcivano. Chiedendomi perché dovevo essere io quello a reggere la macchina fotografica.”

Le perdite, talvolta, finiscono nell’oblio. Non c’è spazio nella mente di qualcuno che vive in questa apocalisse moderna. Si dimentica facilmente e si fatica a ricordare. Non c’è lunga memoria per i morti nel mondo raffigurato da Blake Butler.

Il linguaggio di questi racconti è evocativo, fortemente ricercato. Tanto ricercato da affermare che non credo sia un libro per tutti; talvolta questo stile potrebbe arrivare a dar fastidio al lettore. Anche se, in realtà, penso sia tutto in linea con ciò di cui si sta parlando, e credo fosse proprio l’intento dell’autore. La volontà di fuggire da qualcosa da cui però non puoi scappare, devi affrontarlo. è così che definirei questo libro: vuoi correre e non guardare, ma allo stesso tempo non riesci a staccartene.

Tanto di cappello a Pidgin, una casa editrice che ammiro molto. Non so davvero come facciano a fare tutto ciò. E, come ho già detto anche a loro, questo libro è un gioiello: graficamente eccellente. Le pagine macchiate, annerite, riflettono esattamente gli scenari vissuti dal lettore.

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L’indieBBBCaffé del mese di Novembre è dedicato a Pidgin edizioni. Se volete scoprire altro su questa casa editrice indipendente passate dalla nostra pagina Facebook!