Specchio delle mie brame – Simon Blackburn
Nota: ho sentito il bisogno di iniziare a scrivere questo articolo durante la lettura delle prime pagine di questo libro. Gli spunti che offre sono così tanti che non volevo assolutamente farmeli sfuggire.
Si parte dal mito di Narciso e poi è tutto in discesa no? No, non proprio. Simon Blackburn ha voluto scomodare la mitologia greca, Adamo ed Eva, Schopenhauer, Nietzsche, Rosseau, Kant, Durkheim, Sartre e tantissimi altri pensatori del nostro mondo per parlarci di un tipo particolare di amore: quello per sé stessi. Non è semplice affrontare un argomento del genere proprio oggi che siamo tutti così apparentemente consapevoli, pieni, falsamente felici, fautori di una (ir)realtà da dimostrare. Consapevoli o no, di noi stessi?
La linea di confine è talmente importante da porre ai due estremi le fazioni del mondo: persone insicure, con poca autostima, che cercano costantemente approvazione dagli altri; persone piene di lodi per sé stesse. Ma il punto forse è un altro: siamo davvero coscienti di quello che siamo? Di chi siamo? Essere consapevoli significa essere obiettivi? Significa saper riconoscere i nostri limiti?
“L’eccessiva sicurezza è spesso frutto di un successo precoce, soprattutto se è stato raggiunto ignorando i consigli altrui. Tutte le nostre caratteristiche personali si affinano con l’esperienza, e se la natura poco generosamente ci spinge a fidarci del nostro giudizio più che di quello degli altri, e ci offre occasioni per raggiungere il successo e il plauso in virtù di questo atteggiamento, sta piantando i semi della hybris. Ma la natura può piantare questi semi anche in modo diverso. Noi siamo abilissimi nell’ingannarci riguardo ai nostri meriti e ci basta credere di aver fatto meglio degli altri per essere sicuri che sia così. È come se, quando si parla di fallimenti, fossimo rivestiti di teflon, per cui ci scivolano addosso, mentre i nostri presunti successi sono fermamente piantati nel nostro archivio mentale. Prestiamo anche una diversa attenzione ai successi e ai fallimenti. I primi sono dovuti a noi; i secondi alla sfortuna.”
Forse siamo talmente presi da ignorare tutto ciò che è nelle nostre mani: siamo delle persone obiettive quando si tratta di giudicare noi stessi? Di comprendere quanto valiamo? Ecco lo slogan principale che l’autore prende come esempio: “perché voi valete”. Quella pubblicità ci sta dicendo davvero che possiamo innalzarci ad un gradino superiore come esseri umani comprando l’oggetto che acclama? O ci sta dicendo che, senza quell’oggetto, siamo nulla? E questo fantasma che ci perseguita, che ci fa credere di essere quello che davvero vogliamo, è capace di creare uno stato di soddisfazione continuo? Molto probabilmente, così come tutti gli oggetti che fanno parte della nostra vita e che abbiamo desiderato fortemente, è in grado di darci una felicità passeggera. Una piccola dose di droga, quello che ci fa stare bene: ottenere.
Ottenere per sé o per gli altri? Siamo davvero felici quando gli altri raggiungono un particolare obiettivo? Magari era qualcosa che desideravamo anche noi e per un momento, o anche tre, abbiamo sperato andasse tutto male ai nostri competitori. Ma si tratta di invidia o di consapevolezza di una nostra mancanza?
“L’idea è che la sincerità non sia un risultato sicuro, raggiungibile a uno stadio dell’essere hegeliano inferiore all’autenticità, che arriva solo quando l’umanità ha raggiunto un livello superiore di consapevolezza. Piuttosto, la vera sincerità è impossibile, ovvero, se preferiamo, il sostituto della sincerità è impossibile da apprezzare se non esiste autenticità nell’io.”
Se state cercando un libro che vi confonda e che, allo stesso tempo, vi dia tutte le risponde, questo è uno di quelli.
Ringrazio Carbonio editore per l’infinita gentilezza
e per avermi dato l’opportunità di leggere questo saggio.
La loro collana Zolle per me è ormai una certezza.